Da "Il Gazzettino" <www.gazzettino.it>
26/07/ 2001
«Al G8 ci è stata negata la libertà di manifestare»
Se ne era parlato per mesi, con gli amici, arrivando alla conclusione che era giunto il momento di vincere l'ultima remora, quella che trattiene la gente dall'esporsi perché pensa che non serva a nulla, tanto nulla cambia.Partendo dall'impegno in un gruppo ambientalista locale per me è stato logico e consequenziale porsi delle domande più ampie, è maturata la coscienza che un'alternativa a questo modello di sviluppo c'è o per lo meno va cercata. Non si può più pensare solo al proprio orticello, tanto meno si può delegare ai "potenti" il nostro pensiero, soprattutto quando non ci si sente rappresentati. Allora un moto di orgoglio, bisogna andare a Genova. Con un amico sincero, mi ritrovo alle cinque del sabato mattina in corriera insieme ad altri ragazzi e ragazze, soprattutto, ma anche uomini e donne, tutti disposti a sopportare qualche piccolo disagio e correre qualche rischio pur di far sentire la propria voce. Le immagini degli scontri del giorno prima sono ben impresse nella mente di tutti, se ne parla poco per esorcizzarne il fantasma, ci si rincuora cullati dalla speranza che la manifestazione di oggi è troppo grande ed importante perché possa venire turbata da incidenti.
Il corteo è qualcosa di impressionante, non so ancora che saremo due-trecentomila, per me è un mare di persone dentro il quale ci si sente unici ma non soli. In questa luminosa giornata di luglio, sostenute dalla brezza del mare, garriscono le bandiere multicolori della pace e quelle rosse del Che, quelle della CISL e della FIOM, di Legambiente e tanti altri.
Il procedere è lento, il mare di persone si muove verso il mare di Genova, canta, grida slogan ed invettive, chiede soprattutto maggiore equità, che idee eversive!
Costantemente due, tre elicotteri volteggiano sopra le nostre teste, è l'unica presenza assidua delle forze dell'ordine e non si ha la sensazione che siano lì per proteggerci. Lungo il percorso non si vede un solo poliziotto o carabiniere a difesa del corteo. L'imponente dispiegamento di uomini e mezzi e per otto persone dentro una cittadella neo-fortificata, non per trecentomila manifestanti ed una città. Dopo un paio di chilometri il corteo si ferma, corre voce che più avanti ci sono disordini, si cerca di evitare infiltrazioni nel corteo ma è oggettivamente difficile.
Arriviamo in prossimità di Punta Vagno, la superiamo ed arriva lo stop definitivo. Qui il viale è stretto da un lato da un bastione, dall'altro l'accesso al mare è ostacolato da alcune recinzioni. Qualche centinaio di metri più avanti si leva il fumo dei lacrimogeni ma si continua a sperare che il corteo possa proseguire. Invece la polizia punta verso di noi che, ormai confusi ed impauriti, tentenniamo tra l'indietreggiare (ma è impossibile fare retromarcia senza schiacciarsi) ed il sedersi a terra con le mani alzate, sperando di resistere indenni al passare dell'onda.
Alla fine, quando la polizia carica ed i lacrimogeni arrivano in mezzo a noi, è chiaro in un attimo come finirà: allora iniziamo a correre col cuore in gola, non solo per lo sforzo, verso la spiaggia, l'unica via di fuga, peraltro raggiungibile solo dopo aver scavalcato le recinzioni. Siamo riusciti a metterci in salvo, noi, ma quando la comitiva si ricompatta qualche ora dopo nei pressi dei pullman, lontano dalla zona degli scontri, non si contano i racconti delle violenze subite da chi non è riuscito a scappare, di chi pensava che stare seduti con le mani alzate fosse inequivocabilmente una dimostrazione pacifica, che salvasse dai manganelli.
In tutti quanti però, una sola ferita brucia più d'ogni altra: quella alla libertà di manifestare pacificamente il proprio pensiero, inferta da chi, per lavoro, dovrebbe difenderla in quanto diritto costituzionale.
Igor Munari
Rosà